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La Chiesa che perde l'Europa

Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani

Redazione InPiù 30/01/2023

In edicola In edicola Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera
“Può il Cristianesimo perdere l’Europa senza combattere? E può accettarlo innanzi tutto la Chiesa cattolica, la quale nel nostro continente è stata del Cristianesimo la manifestazione prima e resta indubbiamente la più rilevante?” Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera si pone queste domande cruciali e osserva che “in realtà è dalla fine della Seconda guerra mondiale che la Chiesa ha cessato di considerare l’Europa stessa un centro della storia mondiale e quindi della sua propria storia. A radicare questa immagine dell’Europa come un’entità politica ormai fuori gioco - sottolinea - si aggiunse negli anni Cinquanta del Novecento una serie di fatti. Innanzitutto la crescente importanza sulla scena mondiale degli Stati africani e asiatici neo-indipendenti, l’ascesa ideologica del terzomondismo, il rafforzamento e la stabilizzazione dell’egemonia mondiale russo-americana, il proliferare delle più varie organizzazioni multilaterali. La parte migliore del cattolicesimo e la Chiesa si fecero conquistare da questo scenario che così divenne la tacita ma decisiva premessa culturale e politica della svolta conciliare. L’Europa – scrive Della Loggia - aveva in sostanza un carattere residuale e naturalmente la sua rapidissima decristianizzazione non poteva che confermare una tale analisi. Ora è vero che l’universalismo è iscritto nel dna stesso del Cristianesimo e nel nome stesso del Cattolicesimo. Ma quell’universalismo cattolico ha comunque alle spalle una storia. È mai possibile per il Cristianesimo/Cattolicesimo fare a meno di questo rapporto costitutivo e tuttavia conservare la propria identità? Lo può soprattutto la Chiesa che è di Roma perché qui essa raccolse l’eredità di tutto quanto c’era prima e se ne servì per tutto quanto sarebbe venuto dopo? Questo è l’interrogativo formidabile che si pone oggi. E però tutto lascia credere che Roma quella domanda ormai non se la ponga neppure. A questa Europa che si allontana, che è già così lontana, Roma però non sembra neanche più interessata a trovare qualcosa da dire: convinta evidentemente – conclude l’editorialista - che non qui ma altrove si giochi ormai la partita decisiva”.
 
Francesco Bei, la Repubblica
Francesco Bei su Repubblica analizza il ‘cul de sac’ in cui si è cacciato il governo con il caso Cospito: “Il trasferimento del detenuto Alfredo Cospito, in regime perdurante di 41 bis, dal carcere di Sassari a quello di Opera – scrive Bei - è una buona notizia ma non rappresenta una svolta. Tiene ferma la situazione di stallo, allontanando per un po’ la possibilità di un esito tragico, eppure resta al di sotto di quanto sarebbe necessario. L’errore infatti è nel tenere insieme cose che insieme non devono stare: il caso Cospito e la repressione della guerriglia urbana. Far dipendere la sorte di Cospito dall’atteggiamento dei suoi “compagni” fuori dal carcere non lega le mani a loro bensì allo Stato. E gli impedisce di fare la cosa giusta, quale che essa sia. Se si pensa che sia opportuno allentare il regime carcerario per il detenuto Cospito, lo si faccia e basta. L’amministrazione della giustizia dovrebbe essere cieca e sorda rispetto alla piazza e scrutare con il microscopio il singolo caso, non alzare lo sguardo con il cannocchiale a caccia di improbabili nemici. A meno che – sottolinea Bei - ed è legittima a questo punto una dose di malizia, il caso Cospito e la postura di ferro del governo, non abbiano anche un altro scopo. Nei giorni scorsi, a fronte di un successo incredibile sulla lotta alla mafia nella maggioranza si è generato infatti un cortocircuito da dilettanti allo sbaraglio, che ha impedito alla destra di capitalizzare politicamente la cattura del boss. Se il gioco è questo è un gioco pericoloso, perché potrebbe anche andare a finire male, sia perché eccita i più violenti e li sprona a una contrapposizione sempre più frontale, sia perché rischia di ritorcersi contro Cospito. Un condannato per fatti gravissimi, un uomo violento che non ha esitato a sparare a un essere umano, ha messo due bombe con bulloni e biglie di ferro davanti a una caserma che avrebbero potuto uccidere, ma non merita la vendetta di Stato. Perché – conclude Bei - non la merita nessuno. Lo dice la Costituzione italiana, non qualche fanzine anarchica”.
 
Veronica De Romanis, La Stampa
“«Non disturbare chi vuole fare» è il motto dell’attuale esecutivo. Lo ha spiegato Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento il 25 ottobre scorso”. Lo scrive Veronica De Romanis sulla Stampa mettendo in luce i paradossi del governo sulla concorrenza: “Alla luce dell’azione di governo svolta sin qui, però – sottolinea l’editorialista - la logica che sembra prevalere è un’altra, ossia «non disturbare chi vuole fare, ma solo se sta già facendo». Sotto questo aspetto, la questione dei balneari è emblematica. Meloni ha (giustamente) bloccato (per quanto ancora?) il tentativo dei due partiti alleati, Lega e Forza Italia, di estendere oltre il 31 dicembre 2023 la proroga alle concessioni. In buona sostanza, i balneari che vogliono fare non devono essere disturbati. A questo punto, la domanda sorge spontanea: e gli altri? Chi difende coloro che attualmente non fanno ma che vorrebbero fare? E che sia chiaro: raggruppare questi potenziali imprenditori sotto un’unica categoria, quella delle multinazionali che comprano le nostre spiagge per pochi soldi, è davvero fuorviante. Vi sono  - osserva De Romanis - tanti giovani capaci che vorrebbero iniziare un’attività. Se non diamo loro la possibilità di entrare nel settore una volta che si sono formati, inutile parlare di merito. Peraltro, garantendo pari opportunità di accesso per tutti, non solo per gli insider, si crea un circolo virtuoso che genera benefici per l’intera collettività, a cominciare dai consumatori in termini di minori prezzi e maggiore efficienza dei servizi offerti. Si chiama concorrenza. L’alternativa è quella di tutelare e, di conseguenza, avvantaggiare solo pochi privilegiati. Ma così non si cresce. La premier sembra esserne consapevole. Lo dimostra la posizione assunta su un altro versante, quello degli aiuti di Stato. Meloni è contraria a un mero allentamento della normativa europea perché, ha spiegato, «determinerebbe una distorsione del mercato interno». C’è, allora, da chiedersi perché chi è alla guida del nostro Paese invochi (giustamente) in sede europea uguali opportunità ma, poi, in casa protegga una determinata categoria di imprenditori a danno di altri? Agli occhi dei nostri partner – conclude - questa ‘distinzione’ è difficile da comprendere”.
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