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I numeri (e le preoccupazioni) sullo stato della giustizia
Sintesi degli editoriali dei principali quotidiani
Redazione InPiù 27/01/2023

Sul Corriere della Sera Sabino Cassese indica per punti gli attuali nodi della giustizia italiana e suggerisce alcune soluzioni: 1) Arretratezza e lentezza, con oltre 4 milioni di cause civili e penali pendenti al termine del terzo trimestre dell’anno scorso. 2) Riforma Cartabia: mai era stato fatto tanto, nella direzione giusta, in così poco tempo. 3) Intercettazioni: necessarie norme più stringenti per tutelare il rispetto della libertà e della vita privata delle persone 4) Immagine pubblica dei magistrati 5) Che cosa è urgente fare. Se questa è la situazione della giustizia, afferma Cassese, occorre porre rapidamente rimedio alle principali disfunzioni. L’ordine giudiziario non sarà veramente indipendente finché occuperà i vertici del ministero, perché indipendenza comporta separatezza dal potere esecutivo. In secondo luogo, una giustizia che arriva in ritardo – generando nel processo penale elevati tassi di prescrizione dei reati – è necessariamente ingiusta e quindi occorre misurare la performance e aumentare la produttività, anche attraverso la digitalizzazione su cui ha puntato la recente riforma, ciò che si può fare senza interferire con la piena indipendenza. In terzo luogo, occorre creare un archivio e un osservatorio delle migliori pratiche (che vi sono e sono facilmente identificabili), perché tutti vi si ispirino. Infine, ci si dovrebbe rendere conto che magistrati combattenti, anche negli studi televisivi e sui giornali, finiscono per essere (o per essere considerati) magistrati di parte. La Costituzione si preoccupa di assicurare l’indipendenza dell’ordine giudiziario da invasioni esterne. È accaduto il contrario: l’affermarsi di magistrati combattenti, organizzati in associazioni che ritengono l’ordine giudiziario un corpo separato dotato di autogoverno, salvo partecipare all’attività legislativa e amministrativa, e quindi scavalcare la separazione dei poteri, ha finito per creare una politicizzazione endogena del corpo.
Chiara Saraceno, la Repubblica
Chiara Saraceno su Repubblica critica la proposta del ministro Valditara di pagare gli insegnanti diversamente a livello territoriale in base al costo della vita. Il ministro – commenta Saraceno – non mette in discussione il contratto nazionale, ma cercherà il modo, e i fondi, per aggiungere qualcosa ai compensi stabiliti a livello nazionale nelle città in cui il costo della vita è più alto. Le gabbie salariali eliminate dal settore privato verranno reintrodotte nel settore pubblico, con lo Stato, cioè noi, che finanzierà indirettamente il più elevato costo della vita nelle città e regioni più ricche, invece di migliorare la qualità del welfare, dei trasporti, delle scuole e dei servizi per l’infanzia, della sanità, la cui inadeguatezza spesso abbassa la qualità della vita nelle zone a costo della vita più basso. Che gli insegnanti siano pagati troppo poco e abbiano una carriera e una progressione stipendiale piatta è vero. Ma lo è su tutto il territorio nazionale. Se si può e deve pensare ad una differenziazione retributiva, inoltre, deve riguardare la quantità di lavoro e responsabilità. Ad esempio, chi, lavorando in contesti difficili, ad alta intensità di povertà educativa, dedica più tempo al lavoro con gli studenti e alla costruzione di collaborazioni con la comunità circostante e con l’associazionismo per creare contesti favorevoli all’apprendimento, meriterebbe di essere pagato di più di chi, legittimamente, si attiene alle attività curriculari e all’orario contrattuale. Ragionare con i sindacati su come remunerare le diverse responsabilità e livello di impegno mi sembra un’operazione, certo anch’essa non esente da conflitti, ma certamente più coerente con i compiti di un ministro dell’Istruzione, degli insegnanti, della scuola, di una discussione sull’opportunità di compensare per gli insegnanti (e perché mai solo per loro?) le differenze nel costo della vita.
Massimo Cacciari, La Stampa
Ciò che è accaduto in Italia con la vittoria della Meloni non ha nulla di contingente o occasionale, commenta Massimo Cacciari sulla Stampa. Invece di baloccarsi alla ricerca della faccia più idonea per interpretare il ruolo del segretario e di pensare che la sconfitta derivi da qualche errore di percorso, il Pd dovrebbe interrogarsi sulla causa fondamentale che ne spiega la deriva e comprendere se a questa sia possibile porre rimedio. Elencare confusamente miriadi di ragioni serve a poco. La ragione fondamentale è una, storica, materiale, ben piantata nella forma contemporanea dei rapporti sociali e di produzione. La rivoluzione tecnologica dell’ultimo trentennio, la più intensa e accelerata che l’umanità abbia conosciuto, ha comportato un radicale mutamento negli equilibri di potere. Automazione, robotica, intelligenza artificiale rendono pateticamente obsoleto ogni discorso sulla “centralità del lavoro”. Il 50% dell’occupazione attuale potrebbe già venire sostituita dai nuovi sistemi. Le nostre società hanno cessato di essere “repubbliche fondate sul lavoro”? No, ma il lavoro che le fonda è quello tecnico-scientifico, innovativo, il lavoro dell’intelletto generale, organizzato a rete sull’intero pianeta, al di là di ogni confine statuale, di cui Marx aveva profeticamente parlato. Un tale sistema può svilupparsi per sua natura soltanto in un senso: moltiplicando le disuguaglianze tra gli attori, i proprietari del processo innovativo, coloro che sono in grado di promuoverlo e gestirlo, da una parte, e le masse che sono costrette a subirne le conseguenze, come si trattasse di eventi naturali, dall’altra. Questo è l’orizzonte sul quale le sinistre avrebbero dovuto parametrare tutta la loro azione. Come si è invece caratterizzata? Un mix horrendum tra subalternità ai processi di globalizzazione, dettati da capitale finanziario e le multinazionali dei settori strategici, e difesa conservatrice dei vecchi assetti politici e istituzionali.
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