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Perché Conte parla in tv all'ora di cena
Redazione InPiù 04/12/2020

Sul Quotidiano Nazionale Massimo Donelli parla della strategia di comunicazione di Palazzo Chigi. “Anche ieri sera il premier Conte ha scelto benissimo i tempi per scalare gli ascolti tv. L’ennesimo Dpcm era pronto da ore ma il premier ha parlato alle 20,20 facendo irruzione nei telegiornali. Un annuncio a reti unificate, quindi, come accade solo il 31 dicembre, quando il presidente della Repubblica fa gli auguri alla nazione. C’è, però, una bella differenza tra il messaggio del capo dello Stato e le incursioni del premier. Il primo è fuori dal perimetro dei tg. Il secondo è dentro e si fa precedere da uno spleet screen, con la finestrella nella parte bassa del teleschermo che inquadra il microfono dal quale parlerà. La consolidata audience dei telegiornali, infatti, garantisce un ottimo ascolto: stiamo parlando di 13 milioni di telespettatori che difficilmente cambiano canale quando, come ieri sera, viene loro detto che cosa potranno o non potranno fare a Natale. E, di, conseguenza, la cara e vecchia tv resta più che mai salda al centro della scena. Perché nessun altro media riesce a radunare così tante persone nello stesso momento con un supershow, un supermatch di calcio o, appunto, un presidente del Consiglio con superpoteri. Che, molto più di Berlusconi e di Renzi, entrambi tv-centrici, ha usato e usa le telecamere per consolidare l’immagine. La propria, badate, non quella del governo, giacché tutta l’estetica della comunicazione, curata dal portavoce Rocco Casalino, è focalizzata sul premier e solo sul premier. Conte che incede sorridente nei giardini di Villa Pamphili. Conte serioso che proclama a ore improbabili il secondo lockdown. Conte che parla in piedi nel magnifico cortile di Palazzo Chigi. Conte che corre trafelato per i marmorei corridoi chigiani, compulsa carte in un salotto damascato oro, dialoga in conference call davanti a un megaschermo hi-tech. Sempre pettinato, incravattato, pochettato. Sempre all’opera per tutti noi. Altro che libreria bianca arcoriana. Altro che scenografie easy chic leopoldesche”.
Pino Corrias, Il Fatto
Il populismo è il prodotto anche di una guerra interna ai ceti abbienti. Lo sostiene Pino Corrias sul Fatto Quotidiano. “Domina la convinzione che il successo del populismo respiri in sintonia con i rancori dei nuovi poveri, i ceti deboli tartassati dalla globalizzazione, le vittime della nuova manodopera a basso costo. Ma le cose stanno così solo a metà. E lo spiega in modo convincente Peter Turchin, visionario professore russo americano di questioni sociali, nella sua ultima ricerca The Real Class War Is Within The Rich, dove racconta che le tensioni dentro le nostre turbolente democrazie che hanno prodotto il populismo in Europa, America, Russia, Brasile, non sono cresciute soltanto a causa dell’impoverimento delle classi lavoratrici, ma anche per la “sovrapproduzione delle élite”, cioè dei ceti alti e medio-alti della nostra scala sociale ai quali non è stata offerta una quantità adeguata di opportunità coerenti con le loro aspettative. Non abbastanza da ripagare il tempo, i soldi, i desideri e la fatica impiegati nei molti anni della loro formazione professionale. Così che questo sovrappiù di competenza, di fatica, di sforzi professionali, di attese ha gonfiato le aspettative e moltiplicato le delusioni anche di quella classe abbiente svincolata dal bisogno, ma non dal desiderio di status, successo, soldi. Che diventa frustrazione per poi trasformarsi in rancore sociale. E il rancore in protesta elettorale. La Brexit ha vinto nelle contee agricole benestanti, ancorché periferiche. A Liverpool, la città operaia più povera, ha vinto il Remain. Trump ha guadagnato consensi dividendo l’America non tra i ricchi e i poveri, ma tra «noi e loro», la gente comune «autenticamente americana», e l’establishment di Washington. E’ la ribellione – conclude Corrias - dei ricchi non abbastanza ricchi”.
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