La donna dal cappotto verde
Non ha bisogno di presentazione Edith Bruck che riesce ad essere sintetica, ma ricca di spunti, di approfondimenti, di varietà di temi affrontati con la sua prosa efficace e spesso tagliente, intrisa di lirismo, piena di poesia, nel suo ultimo breve romanzo, appena pubblicato da La Nave di Teseo. “La donna dal cappotto verde”, mette insieme il suo passato, quello di sopravvissuta al lager di Auschwitz dove sopravvisse bambina insieme alla sorella, a quello di una scrittrice che abita da decenni a Roma, al centro storico, con il marito amatissimo. I personaggi fittizi (ma largamente autobiografici) , sono Lea, suo marito Dario, la nipote Deborah, la domestica moldava Veronika, le amiche Elisa e Giordana, un’anziana donna dal cappotto verde incontrata per caso dal panettiere, che turba profondamente la protagonista: questa sembra averla riconosciuta, tanto da chiamarla con il suo nome….”Sei Lea, la piccola Lea di Auschwitz…Sì, sì”. Da quel momento, per Lea non c’è più pace: chi è quella donna misteriosa, forse la sua Kapo che nel campo la separò da sua madre e si fece beffe della bambina che invocava il nome della mamma, forse già passata per il camino, secondo Aliz, che Lea sente essere la donna appena incontrata a via della Croce, mentre comprava il pane? Lea rintraccia l’indirizzo della donna misteriosa, accetta di incontrarla a casa sua, perché lei vuole venderle la sua casa, a tutti i costi, ad un prezzo irrisorio. Perché? E’ un giovedì, siamo nel 2006, alla televisione sta cominciando Annozero di Michele Santoro; Lea e Dario, si chiamano confidenzialmente Nano e Nana, sono pronti davanti al televisore, quando Lea è colpita da un grave malessere, forse un infarto. Autoambulanza, corsa all’ospedale, degenza: la settimana che Lea trascorre in osservazione, il suo cuore ha subito un danno serio, è una delle migliori descrizioni che ho letto di un ricovero in un ospedale romano: il senso di solitudine, l’arroganza, la freddezza, la distanza che dimostra il personale, medici e infermieri e suore, che, pur curando con efficacia i pazienti, li trattano con distacco burocratico o con una finta affettività:….dare del tu, appellare con l’onnipresente “cara”, una donna anziana, che, pur vivendo da decenni a Roma, conserva un’inflessione straniera che la pone subito nella casella degli immigrati che si possono maltrattare o ignorare. Scene viste e riviste in tanti film, Sordi e Verdone maestri del genere, che però, nelle righe di Edith Bruck, assumono il tono di denuncia nei confronti di una sanità che spesso non è all’altezza del proprio delicato compito: una donna fragile, che teme di aver perso la cosa più importante che le resta, la memoria, trattata come un oggetto su cui si può infierire e di cui ci si può dimenticare; Lea trascorre una settimana che sembra un anno, in una “cella” nel seminterrato, dove il passare delle ore è scandito da incubi, ricordi di un passato atroce, paura di non farcela. Il ritorno a casa, le hanno “aggiustato” un cuore malandato, la farà ritrovare in mezzo a oggetti, fiori, carte, libri, cibi, e soprattutto al Nano, che non sopravvive senza di lei, felice del suo ritorno, atterrito dall’idea di perderla: eccoli nella loro intimità ritrovata, fatta di gesti speciali, toccarsi i piedi gelati nel calore del letto coniugale, cercare nel corpo ormai anziano dell’altro la felicità della passione giovanile, che si nutre dei versi che lui ha dedicato alla donna della sua vita. Grazie ad Edith Bruck di queste pagine , che la consacrano come una delle voci più sensibili e solide della letteratura contemporanea, consapevole del ruolo di testimone della Shoah, ma fedele anche al suo essere stata scrittrice coraggiosa, testimone fedele del suo tempo, moglie innamorata.