Babysitter
Nel suo ultimo romanzo Babysitter, Joyce Carol Oates si conferma una grande ed originale narratrice : sa raccontare, intrigare il lettore, farlo avvicinare ai suoi personaggi da cui poi non può che ritrarsi, quando l’analisi profonda che la scrittrice intraprende, lo scavo psicologico, la diversità dei luoghi d’osservazione mettono a nudo caratteri fragili, bislacchi, contraddittori, nei quali l’apparenza domina per poi rivelare a chi legge abissi di doppiezza, immoralità, bramosia di denaro, sesso e potere, perversione, razzismo. La Oates questa volta parte da un fatto di cronaca realmente accaduto a Detroit, la “Motor city” nordamericana, quando, a metà degli anni settanta, furono rapiti e uccisi numerosi bambini, bianchi, i cui cadaveri nudi venivano fatti trovare vicini ai loro abiti, lavati e piegati, dopo che le vittime erano state torturate, violentate, uccise. Un giornalista locale aveva soprannominato “Babysitter” il sadico introvabile assassino. In un ricco distretto fuori città abita la famiglia di Wes Jarrett, quarantenne wasp di successo, sposato con la bionda Hannah: la coppia felice ha due bambini ovviamente biondi e belli, Conor e Katie, sette e quattro anni; vive nella grande villa con loro la domestica filippina Ismelda, silenziosa, attenta, superefficiente, sostituta perfetta dei genitori spesso assenti; ad un charity party organizzato dalle inquiete casalinghe annoiate di cui Hannah fa parte, uno sconosciuto stringe il polso della eterea ed elegante Hannah, che resta fulminata da quella stretta intima e complice, da parte di un uomo, che la coinvolge in una storia clandestina di sesso violento e di sudditanza psicologica; l’uomo si chiama Y.K., solo le iniziali di una identità che resta sconosciuta. Hannah veste Prada e Dior, miti americani della eleganza europea, calza decolleté Ferragamo e tacchi a spillo Saint-Laurent, è sempre perfettamente pettinata e truccata, ma in uno degli incontri con l’uomo misterioso rischia di morire soffocata, coinvolta in giochi erotici pericolosi ed estremi. Entrano in scena altri personaggi : tutti sembrano provenire da una comunità religiosa dove un prete, padre MacKenzie, si circonda di bambini, adolescenti, ragazzi che soddisfano la sua perversa sessualità. Da lì si muove “Codadicavallo”, una ventenne ruvido che si mette a disposizione del misterioso Y.K. , che conosce solo con un soprannome, “Occhiodifalco”. Si susseguono spaventosi delitti che mettono in crisi la zona residenziale dove i potenti del posto temono per la loro incolumità. Una storia nera, a tratti terribile, dove l’amore non esiste più da tempo: solo smania di potere, enormi patrimoni per conquistare i quali non si esita ad uccidere, a sacrificare ogni forma di umana pietà. Hannah è un personaggio dolente: madre per forma più che per vera vocazione, dovrà fare conti terribili con la propria coscienza; ammaliata da un sesso violento e rapace, in cui crede di intravedere l’amore, si avvia verso il finale del romanzo insieme a noi lettori, spaventati quanto lei, verso quel Grand Hotel Renaissance, camera 6183, dover tutto era cominciato. La lingua di Oates è affilata, non risparmia nessun crudo particolare, ci trascina nell’abisso in cui i suoi personaggi sono precipitati. Personaggi-mostri, in una città razzista, nella quale i neri sono parcheggiatori o portieri, ossequienti ai bianchi super ricchi da cui dipendono le loro esistenze; ma i bianchi sono corrotti, depravati, drogati, assassini. La Motor city, quella mitica Detroit da cui partì Henry Ford, ridotta a una Murder City, dove è meglio chiudere sempre porte e finestre, mettere sotto il cuscino una pistola carica. Wes Jarrett, la sua cerchia di amici, tutti identici per mentalità e attitudini, assistono